Li esposi all’Apollinaire dal 12 al 23 maggio. Avevo invitato all’inaugurazione l’Ing. Luigi Crema, Soprintendente ai Monumenti (venuto a Chieti nel ’49) che mi ospitò nella Foresteria. Visitai le altre gallerie e conobbi molti artisti.
Commentarono la mostra: Raffaele De Grada (RAI, Gazzettino padano, Arti plastiche e figurative, Milano, 5 maggio); Vice, Le Mostre, Consoli all’Apollinaire (L’Avanti, Milano, 15 maggio); Garibaldo Marussi, Gazzetta delle Arti (L’Italia, Milano, 17 maggio); Mario De Micheli (L’Unità, Cronache d’Arte: Consoli, Milano, 22 maggio); Mario Lepore, Mostre d’Arte: Consoli (Corriere Di Informazione, Milano, 25 maggio); Dino Caruso, Sicilia narrata con il pennello: Consoli a Milano (Espresso Sera, Catania, 25 maggio); Dino Villani, Le Mostre d’Arte a Milano (L’Ufficio Moderno, Milano, Luglio, p. 27).
Congedandomi dal prof. Crema gli esposi che avrei gradito stabilirmi a Milano; mi suggerì di attenderne l’opportunità.
Ritornate le opere a Catania, allestimmo con Milluzzo e Stefano Rapisarda una triplice all’USIS di Palermo. La recensì Maria Poma Basile (Espongono a Palermo tre pittori di Catania: Consoli, Milluzzo, Rapisarda, L’Ora, Palermo, 28 settembre 1956): “…ci sembra che Consoli abbia voluto far convergere la ricerca di uno stile che comprenda l’esigenza decorativa da cui partì e quella espressiva che si è andata formando, quella realistica della pittura italiana più engagèe e quella popolare, tradizionalmente siciliana, che va dal vaso sicelioto alla pala da carretto. E’ soprattutto questo accento autoctono, questo riallacciarsi ai caratteri primitivi della nostra pittura, pur decantandoli attraverso una cultura figurativa europea che ci pare la nota più interessante e più ricca di sviluppo nel pittore Consoli. V’è nel suo colore l’opacità ferrigna della lava, di cui è lastricata la sua città, la violenza che grida nelle magliette a righe dei ragazzi e nei gonfaloni delle processioni, la pregnanza della carne olivastra delle donne racchiuse entro il ferro panciuto dei balconi, l’umidità animale dei loro occhi neri come olive, il lento gocciolare del silenzio sulle ricamatrici curve al telaio, la rutilante luce delle nostre strade sotto la tenda arancione del lustrascarpe: e tutto vi è esasperato e fermo in una stilizzazione che ha insieme del primitivo e del barocco, in un colore che predilige i toni fondamentali negli accostamenti più rischiosi, alle volte ostentatamente sgradevoli…”
Poi esposi quelle dieci opere al Circolo della Stampa di Catania dall’8 al 23 dicembre. Ne riferirono Dino Caruso (Realismo e umanità nella pittura di Consoli, Espresso Sera, Catania, 17/18 dicembre) e Vito Librando (Piccola Galleria: Pitture di Consoli al Circolo della Stampa, La Sicilia, Catania, 21 dicembre).
Nel 1957, frequentai a Roma il corso speciale dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte e dell’Istituto Centrale del Restauro, riservato ai funzionari scientifico-direttivi delle Soprintendenze dello Stato, e conseguii la Specializzazione in Discipline Archeologiche e Storico-artistiche. Non trascurai di rivolgermi al Capo del Personale delle AA. e BB. AA. aspirando a lasciare l’isola per una sede del Nord. Tornato a Catania, ricordo che lo zio Carmelino mi parlò di un disegno esposto alla vetrina di un negozio di colori. Andammo insieme a vederlo ed egli lo acquistò. Era opera di un giovane di Biancavilla, Pippo Coco, che andammo a trovare. Ebbe inizio così uno dei miei sodalizi più gradevoli e interessanti, a livello intellettivo, per la singolarissima originalità del personaggio, Pippo Coco, che sarebbe divenuto uno dei maggiori e dei più caustici umoristi italiani in campo internazionale. Ci saremmo frequentati piacevolmente a Genova, a Milano ed in Sicilia.
Mi scrisse a metà ‘57 l’arch. Armando Dillon, Soprintendente ai Monumenti della Liguria, proponendomi di trasferirmi a Genova. Affidai i miei genitori alla solerte famiglia Nicosia, e con Livia e le bimbe andammo ad abitare nel Palazzo Reale di Genova in via Balbi. Per l’Ufficio, assunsi la tutela paesistica della Riviera di Levante.
Dopo quanto avevo visto a Milano e a Roma, sentivo di essere ormai ad una svolta. Dal ’36 al ’56, avevo emesso a getto continuo tutto il mio patrimonio figurativo. Ora, immaginavo strutture di fibre metalliche.